Mio padre aveva le mani dure, segnate dai calli e dalla fatica.

Non erano mai bianche e candide, il lavoro che faceva le rendeva ruvide come la corteccia di certi vecchi alberi. Mio padre era un calzolaio. Riparava le scarpe in un piccolo paese della Lucania e spesso, quando sapeva che aveva di fronte qualcuno che non poteva permetterselo, lo faceva mettendosi in tasca un semplice grazie.
Mio padre mi ha insegnato che tendere la mano è il gesto più grande che un uomo possa fare verso un altro uomo.

Il negozio di mio padre profumava di cuoio, lui stesso si portava dietro quell’odore, misto al tabacco delle sue sigarette. Mio padre sorrideva, scherzava e adorava cantare. Spesso, chi passava nel corso del paese lo sentiva e gli scappava un sorriso.

Mio padre mi ha insegnato che sono le cose semplici a renderci felici e che un animo pulito canta e sorride in pace con il mondo.

Da piccolo, mio padre mi portava in campagna con lui. Avevamo un orto, degli animali e io avevo dei compiti precisi: innaffiare le piantine, deviare il corso dell’acqua nei solchi, dar da mangiare a galline e conigli. Piccole cose da fare, ma con uno scopo unico: insegnarmi il rispetto per il lavoro, qualunque tipo di lavoro, e onorare le responsabilità che prendevo in carico.

Spesso restavo con lui in negozio. Ero ragazzino, mi annoiavo, ma mi piaceva vederlo lavorare. Osservarlo cucire con lo spago e il punteruolo e tirare per stringere i punti con tutta la forza che aveva nelle mani. Mi insegnò a risuolare le scarpe perché nella vita non si sa mai. “E anche se non ti auguro di fare il mio mestiere, è bene che tu sappia come si fa”.

Certe notti mio padre restava sveglio fino all’alba vicino al caminetto per finire le scarpe nuove che aveva promesso e non l’ho mai sentito lamentarsi una sola volta.

Mio padre mi ha insegnato che lavorare onestamente è una benedizione.

A settembre andavamo insieme per funghi e io lo seguivo nel bosco come un cucciolo. Una volta mi persi e riuscii a sentire la sua voce che da lontano mi diceva: “Non muoverti! Resta dove sei, ti trovo io”.
E mi ritrovò. Aveva in mano dei porcini giganti e tornammo a casa felici, mostrandoli a tutti gli amici che incontravamo.

Mio padre mi ha insegnato ad avere fiducia, a non perdere la speranza, a fidarmi delle persone che mi vogliono bene.

Alla mia laurea, mio padre pianse come un bambino e lo fece anche al mio matrimonio. Si emozionava e non riusciva a trattenersi.

Mio padre mi ha insegnato che i puri di cuori piangono di felicità e lo fanno senza timore di apparire deboli.

Oggi mio padre non c’è più. È partito per il suo viaggio eterno con le mani candide e il volto sorridente. Mentre lo salutavo per l’ultima volta, fissando il suo corpo scomparire dietro un muro di cemento, ho ripercorso, mattone dopo mattone, tanti momenti vissuti insieme e ho ricambiato tutte le sue lacrime che ho potuto, anche se le mie non erano di gioia come le sue alla mia laurea o al matrimonio…

Tante persone del mio paese mi si sono fatte vicino e ognuna di esse ha condiviso con me un ricordo di mio padre che io non conoscevo. Ringrazio tutti dal più profondo del cuore perché hanno aggiunto pezzi alla sua memoria, mi hanno raccontato cose che non conoscevo e mi hanno regalato il ritratto di un uomo buono e onesto e non solo quello di un padre amorevole e di un marito devoto. Mio padre era l’ultimo ciabattino di Roccanova.

Porterò tutto questo sempre con me e spero solo di riuscire, un giorno, a lasciare anche io ai miei cari il ricordo e l’orgoglio che mio padre ha lasciato a me.

È stata questa l’ultima cosa che mi ha insegnato.

Grazie papà…

Di Salvatore Viola

Scrivo per professione e scrivo per piacere, ma scrivo anche perché ho la tremenda necessità di farlo. Il mio lavoro? Faccio tante cose, ma sono prima di tutto un padre e cerco di esserlo nel migliore dei modi possibili, ovvero provandoci senza sosta.

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